Family Portraits

 

“RITRATTO DI FAMIGLIA”

13/12/2018|10/02/2019

Con il contributo di: Carmine Agosto, Clarissa Falco, ENECE Film, Benedetta Incerti, Diego Morgera, Elena Perugi, Manuela Piccolo, Adriana Tomatis.

“Guardami”, sembra dire l’oggetto in mostra al solerte pubblico presente, che con il proprio sguardo eleva il manufatto a sacro fino a renderlo vivo, poiché l’oggetto e l’immagine di questo, non sono mai indifferenti agli sguardi e quest’ultimi non sono mai senza effetto.
Ritratto di Famiglia è una mostra che riflette sul concetto di accoglienza, sul potere del dono, soffermandosi sulla costituzione di nuovi nuclei familiari, sempre meno ermetici e consanguinei, ma permeabili e contaminati.

Il progetto riassume i primi passi dello spazio X che – accolto a sua volta in un contesto popolare alle porte della città di Milano, nel quartiere Chiesa Rossa – si concentra sul ritratto non solo come operazione di custodia, come la raffigurazione di un archetipo, di un modello di vita, ma anche come profondo spunto di riflessione sul presente. Un presente di resistenza. Un presente instabile che scava per trovare la sua concretezza nella solidità della storia e la sua forza futura nella ripetizione di questa, tralasciando quello che di più innovativo la storia ha regalato, la prospettiva, non solo come questione tecnica, ma come possibilità di creazione di nuovi sguardi, di nuove realtà, di nuove e concrete comunità. La mostra dunque, come in una stanza delle meraviglie, disegna le sue linee prospettiche tra oggetti donati, oggetti trovati nel quartiere, ricerche e contributi storici di un passato non troppo lontano, scambi di memorie e visioni di giovani artisti.

A cura di: Ass. Culturale X contemporary (Carmine Agosto – Roberta Riccio)

Spazio X

Chiesa Rossa. Una storia
L’inizio
Un’immensa landa pianeggiante. Piatta, con pochi alberi o bassa vegetazione. Il terreno si presenta argilloso a tratti. Piccoli rigonfiamenti segnano il terreno, e trincee naturali – a ben guardare –, disegnano strani labirinti naturali. La nebbia, onnipresente, si leva dal terreno calma, a banchi. Sembrano spettri grigi che si alzano a ritmi misteriosi de riempiono tutto lo spazio.
In mezzo, l’acqua. Ovunque acqua.
Il terreno, di origine fluvio-glaciale a cemento carbonatico, è segnato da sedimenti fluviali quaternari. Rocce carsiche o quasi, leggere e friabili, ricche di acqua, fiumi sotterranei, caverne pronte ad essere mitizzate da qualsiasi popolazione le incontri. Sopra, ancora acqua.
Acquitrini nascono tra un rialzo e un altro. Piccoli, piccolissimi, o grandi. Avvolti da una bassissima vegetazione pendente. Questi si aprono, a volte, disegnando strane forme, divenendo piccoli ruscelli che collegano altri stagni: è una ragnatela-micromondo, già opera di ingegneria idraulica.
Accanto a questi percorsi, ecco che spuntano più grossi i canali. Acqua, a tratti stagnante, che segna il territorio, realizzando vie preferenziali per animali e insetti. La fauna è per lo più microscopica. Colonie di migliaia di zanzare si muovono a banchi longo ogni tipo di via idrica, e fanno i loro imperi in piccoli stagni.
In lontananza qualche cervo. Nelle stagioni più calde si spingono verso la palude. Sono attorniati da insetti, che contribuiscono a pulirli. Ma sono rari, e cauti. Si fermano prima di un avvallamento e osservano le distese. Quando la nebbia avvolge tutto, si affidano all’olfatto e all’udito.

In mezzo corrono le lepri, le cui tane sono ovunque nel terreno argilloso. Nell’acqua, invece, dimorano gallinelle e oche selvatiche. Sono impegnate nella pesca, con la testa sotto l’acqua, e a realizzare piccoli nidi di fango e arbusti per i piccoli.

Ma il vero re di questa piana paludosa è il Cinghiale. Numerosi, si muovono in gruppo. Le mamme scortano i piccoli vicino i corsi d’acqua più grandi e i maschi, solitari e grossi, osservano le scene. A loro serve il fango per pulirsi e per cercare larve e vermi: stanno così ore nei pressi delle piccole spiagge limacciose che si creano naturalmente intorno ai corsi d’acqua. Scavano, si sfregano, poi si gettano a mollo.

Così, per approssimazione, doveva apparire l’attuale zona di Chiesa Rossa, quando fu attraversata da una tribù di Celti Insubri, intorno al 600 a.C, in cerca di un buon posto per fondare il loro piccolo villaggio e chiamarlo Medhelan. Di lì a qualche centinaio di anni, i romani l’avrebbero conquistata e resa città prospera, chiamandola Mediolanum.
La “Chiesa Rossa” romana

Mentre la Mediolanum romana prosperava, dopo la conquista a scapito dei Celti del 222 a.C, la zona di “Chiesa Rossa”, già periferia, si trasformava. I romani si accorsero che tutta la macroarea al sud dell’insediamento urbano era fertilissima e ben presto iniziarono ad utilizzare i numerosi acquitrini a loro vantaggio per le colture. Combattendo contro insetti e idrografia, iniziarono i primi lavori per incanalare i corsi d’acqua, così da rendere “domata” la natura paludosa della zona. La zona ebbe sicuramente un interessamento edilizio massiccio quando fu ultimata la strada per Ticinum (Pavia), che passava proprio per il sud di Mediolanum.

Con molta probabilità tra il III e il II secolo a.C., la zona venne interessata dalla costruzione di uno o più Villae. In effetti, sia la fertilità dei campi, sia la posizione strategica, renderebbero la zona tipica per la costruzione di Ville. Questo tipo di edifici, infatti, non è da confondersi con una normale abitazione rurale. La Ville Rustiche romane, in genere, erano una sorta di aziende agricole, di cui il nucleo principale era formato da una grande masseria centrale che fungeva da abitazione e laboratorio per la trasformazione delle colture. Tutt’intorno sorgevano campi coltivati, solitamente da schiavi, recintati e racchiusi da mura. Più avanti, in piena età imperiale, le Ville si ridussero di numero e aumentarono la loro grandezza. Divennero, in soldoni, delle vere e proprie fabbriche, spesso di proprietà della classe senatoria, dove all’interno sorgevano anche caseggiati per ospitare i lavoratori. Questa sorta di villaggi, oltre ad ospitare fino a 2-3000 persone, erano protette da vere e proprie mura difensive; il corpo centrale della Villa senatoria non era più una semplice casa agricola, ma una domus riccamente decorata, che faceva sfarzo di ricchezze, e che rappresentava in tutto e per tutto il potere della casta senatoria della Roma imperiale.

Anche se grandi prove a nostro favore non ne abbiamo, è probabile che proprio dove oggi sorge la chiesetta medievale, esisteva una grossa villa romana. Dagli scavi archeologici degli anni ’60 e del 2002, si sono ritrovati parecchi “indizi” in tal senso. I ritrovamenti più antichi risalgono probabilmente all’epoca tardo-imperiale o primo imperiale, e consistono in un edificio di legno, di dimensioni contenute, che forse doveva essere il nucleo originale della villa. In età leggermente successiva, la struttura subì probabilmente una ristrutturazione in mattoni, ed anche un arricchimento in quanto ad arredi e decori. Di questa epoca si sono ritrovati pavimenti raffiguranti mosaici, di buona fattura, composti di tessere bianche e nere. Sotto questa pavimentazione è stato, inoltre, ritrovata la rete idraulica che permetteva alla villa di essere riscaldata attraverso lo scorrimento di acqua calda. Un ultimo ritrovamento, – una testa mozzata di una statua di età imperiale raffigurante con molta probabilità Giulio Cesare, – farebbe attribuire tutta la struttura ad un membro della gens Giulio-Claudia, e questo fattore consoliderebbe l’ipotesi che tutta la Villa sia un edificio di rango senatorio. Anche la presenza della via verso Ticinum e i corsi d’acqua navigabili, indispensabili per trasportare i raccolti e le merci, rafforzerebbero questa ipotesi.

Non sappiamo nulla riguardo i secoli successivi, ma temiamo che la villa in questione abbia seguito il destino di molte ville nell’Italia settentrionale. Collocate in posizioni pianeggianti e impossibile da difendere, queste strutture vennero progressivamente abbandonate. Le invasioni barbariche e le continue instabilità politiche rendettero queste grandi aziende/villa insicure e non più produttive. Le classi ricche, ormai ridotte in numero e potere, preferirono spostarsi all’interno delle solide mura cittadine, lasciando i terreni incolti e, come nel caso della pianura padana, il ritorno della palude.

La “Chiesa Rossa” medievale
Dei secoli trascorsi tra il tardo-antico e il primo medioevo, non abbiamo notizie del destino della zona interessata. L’unica prova, archeologica, è rappresentata da una pavimentazione a mosaico di epoca alto-medievale, ritrovata nel braccio occidentale del sacello della Chiesa. Tale pavimentazione presenta importanti differenze con quella romano antecedente (anche se è più o meno sullo stesso livello di calpestio). La pavimentazione è policroma, grossolana, e presenta tessere intagliate in modo poco preciso. Parecchie similitudini, invece, sono state riscontrate con i famosi “plutei” longobardi di Monza. Tutto ciò farebbe ipotizzare che la struttura, proprio in epoca Longobarda (V-VI secolo), venne riutilizzata, forse a scopo di villa/rocca patrizia.

Per quanto riguarda l’area geografica di Chiesa Rossa, dobbiamo ipotizzare che in questi secoli la natura aveva ripreso il suo dominio, quasi totalmente. La palude e gli acquitrini ritornarono quasi del tutto allo stato pre-romano, e le colture intensive, che erano sorte in epoca romana, del tutto sparite.

I primi dati certi sulla presenza di una costruzione consacrata, e quindi le prime vere tracce della “Chiesa Rossa”, ci arrivano da un documento del X secolo. Trattasi di un contratto di permuta tra l’Arcivescovo Landolfo, datato al 899. Il contratto parla chiaramente di alcuni terreni presso il Lambro, in località meridionale detta Fonticulum, che confinano con una basilica dedicata alla Madonna. Il nomignolo (letteralmente “Fonticola” o “Fonteggio”), starebbe a indicare la natura stesa del territorio ricca di ruscelli, stagni, paludi. Tra le altre cose, bisogna ricordare che l’arcivescovo Landolfo è persona nota alla Storia: della nobile famiglia Grassi di Milano, fu personaggio di spicco della politica del suo tempo, abile mediatore diplomatico sulla disputa riguardo la Corona del Regno d’Italia, tra Berengario I e Lamberto II di Spoleto.

La prima ricostruzione storica attendibile ed esaustiva della costruzione è rintracciabile al XII secolo. L’arcivescovo Robaldo nell’anno 1139, riportò per iscritto la fondazione ufficiale di un monastero affianco la Chiesa. Con molta probabilità la Chiesa, proprio durante questi lavori, subì una pesante ristrutturazione, ed assunse più o meno l’immagine che mantiene tutt’oggi. Altre attestazioni sono databili ai tempi delle guerre tra Impero e Lega Lombarda, che antepose il comune di Milano all’Impero di Federico I Hohenstaufen detto il Barbarossa, e di suo nipote, Federico II. Proprio durante questi scontri, e in particolare durante l’assedio di Milano nell’anno 1162, ad opera di Federico I, la chiesa subì un primo danneggiamento. Un secondo danneggiamento lo si ebbe con il nipote del Barbarossa, l’Imperatore Federico II. Per rallentare l’avanzata dell’esercito imperiale, i milanesi allagarono tutta l’attuale zona corrispondente a Milano Sud, andando a investire anche la struttura ecclesiastica.

Tutte queste drammatiche vicende portarono il complesso ad una lenta decadenza. Nel 1302 Papa Bonifacio VIII decise per questo motivo di riunire le poche monache rimaste a Fonteggio con quelle del vicino monastero di Santa Maria delle Veteri, dando a queste ultime il governo del complesso di “Chiesa Rossa”. A questi anni risale una lapide tombale ancora visibile in onore a Maria de Robarcarri, figlia del nobile Giudone de Robarcarri, che rimasta vedova si ritirò nel convento e si prese cura della Chiesa, donando ingenti risorse per ornare l’edificio di quadri e nuovi affreschi. E’ proprio a quest’epoca che risalgono la maggior parte dei dipinti e delle raffigurazioni presenti nella chiesa, e che sono stati di recente restaurati.

Nel 1359 tutta la zona di Fonteggio fu interessata dalla costruzione – opera mirabile per l’epoca, – del Naviglio Pavese, da parte di Giangaleazzo Visconti. Era un modo, questo, di domare definitivamente la natura prepotente della zona, impedire nuovi ritorni della palude e creare una comoda e moderna via navigabile. Proprio in questa epoca la Chiesa ritornò ad avere una certa importanza, essendo uno dei primi edifici alle porte di Milano, sosta di pellegrini e mercanti. Di poco successive (metà del 1400), sono le attestazioni che dimostrano il cambio definitivo del nome della Chiesa e della zona tutta: Santa Maria al Fonteggio, diventa Santa. Maria Ruffa o Russa o Rossa, indicando così il colore dei suoi mattoni.

La “Chiesa Rossa” moderna e contemporanea
Milano tra il 1500 e il 1600 divenne, come è noto, uno dei snodi strategici delle campagna militari dell’epoca. Gli eserciti di Francia e Impero più volte si scontrarono per il controllo, e il possesso della “porta d’Italia”, ma questo provocò anche un certo aumento di importanza del complesso urbano.

A livello territoriale, invece, tutte le zone intorno la cerchia muraria, iniziarono ad essere intensivamente interessate da uno sfruttamento agricolo massiccio, favorendo la nascita di borghi e paesini. Anche Chiesa Rossa seguì quest’andamento. Tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600 i governatori spagnoli aumentarono il percorso del naviglio, allargando gli argini. Questo favorì l’espansione del borgo intorno la Chiesa, e permise la costruzione di cascine e dello sviluppo di campi agricoli. E’ esattamente a quest’epoca che risale l’attuale “Cascina” che da il nome al quartiere, tutt’ora visibile. La struttura, uno dei rari esempi di cascina seicentesca così in buone condizioni, era dotata di una grande corte interna su cui si affacciavano i portici, la stalla, la porcilaia e il letamaio.

Ma questo sforzo umano nella costruzione di cascine e deviazione di corsi d’acqua, purtroppo, provocò anche i primi problemi strutturali alla Chiesa. Per mantenere la giusta pendenza del Naviglio, fu realizzato un terrapieno alto circa quattro metri. Tali modifiche al canale, oltre che a destabilizzare la Chiesa, provocarono le prime importanti infiltrazioni d’acqua, che danneggiarono irrimediabilmente gli affreschi trecenteschi. Arrivati alla fine del 1700, la situazione si fece decisamente critica. Le monache dovettero chiamare un ingegnere che realizzò una soletta per riportare la struttura al livello della nuova strada rialzata. All’interno, invece, si dovette creare una sorta di soppalco che divise la Chiesa in due parti, una destinata al culto e un’altra da utilizzare come deposito.

Con l’occupazione bonapartista e la soppressione di molti edifici di culto, la nostra Chiesa Rossa venne lasciata dapprima in stato di abbandono e poi ceduta ai privati, anche se rimase aperta al culto fino al 1951, servendo come chiesetta rurale. Tutt’intorno la Chiesa, infatti, si era venuto a creare tra 1700 e 1800 un vero e proprio borghetto che ospitava, si pensa, circa trecento persone. In maggioranza contadini impiegati nelle numerose cascine, questa comunità visse più o meno inalterata fino al grande stravolgimento urbano successivo alla Seconda Guerra Mondiale.

Durante il ventennio la zona non venne interessata da nessun piano edilizio. Anzi, potremmo dire che funzionò come “confine” sud della città metropolitana di Milano. L’ultimo quartiere in corrispondenza ad essere interessato fu il confinante Stadera, che già dal 1912 aveva iniziato a prendere forma secondo il Piano Regolatore Pavia-Masera. Il fascismo, all’interno dei suoi colossali piani di edilizia popolare, nel 1926 iniziò la costruzione di oltre 1800 alloggi che dovevano ospitare in maggioranza manovalanza operaia e artigiana, impegnata nei numerosi opifici che sorgevano lungo il naviglio, e che abitavano in baracche e alloggi precari tra la zona ticinese e i borghi agricoli di Milano Sud. Il quartiere all’inizio venne chiamato “28 ottobre”, in onore dell’anniversario della Marcia su Roma. Le masse operaie, però, che già in tempi non sospetti coltivavano chiari sentimenti antifascisti, rifiutarono il nome, e ribattezzarono il quartiere in “Baia del Re”, in onore di Kingsbay, ultimo avamposto scandinavo da cui partì la spedizione artica di Umberto Nobile.

La nuova vita di Chiesa Rossa la si ebbe dopo gli anni ’50. In pieno boom economico, Milano fu interessata da un massiccio fenomeno di immigrazione, sia rurale, sia meridionale. Tutta questa massa di persone ben presto fece esplodere un “problema alloggi”. La soluzione venne trovata nella direzione che era stata già tracciata ai primi del 1900, ovvero sviluppare l’area-sud, in corrispondenza del Naviglio Pavese, continuando lo sviluppo a partire da “Baia del Re”/Stadera. Dopo aver ultimato i lavori di quest’ultimo quartiere, lo IACP (Istituto autonomo Case Popolari) di Milano, in concomitanza con la famosa Legge Fanfani sull’edilizia popolare, diede inizio al progetto che iniziò nel 1960 e si protrasse fino al 1966. La logica con cui venne edificato il complesso di case popolari, simile anche per concezione allo sviluppo del vicino Gratosoglio, è quello del quartiere autosufficiente. In tal senso, in concomitanza a grandi complessi abitativi, vennero realizzate anche strutture ad uso civico, come scuole, palestre, parchi giochi; la viabilità venne notevolmente aumentata.

Solamente in questi anni, fine ’60, che Chiesa Rossa inizia ad entrare davvero nel tessuto urbano della città di Milano. E’ anche di questi anni la veloce e radicale mutazione del suo territorio. Quello che, più o meno, era stato uno spaccato geografico più o meno stabile per 2000 anni, fatto di aziende agricole più o meno distanti e piccoli borghi, si trasforma in poco tempo in un complesso abitativo mastodontico, dove il cemento ha conquistato la palude, e dove gli acquitrini hanno lasciato spazio a strade e piazze.

A livello sociale, per una certa ironia della sorte, poco è cambiato. La classe contadina del passato è stata sostituita dalla sua parente più moderna, ovvero quella operaia. La maggioranza degli abitanti che andò ad occupare le abitazioni tra fine ’60 e primi ’70 apparteneva, infatti, alla classe operaia, in particolare meridionale. Ed è così che inizia un’altra storia, non più fatta di Chiese e Canali, ma di lavoro e migrazione, tradizioni rurali meridionali reimpiantate al nord.

Negli anni ’70 e ’80, gli anni vivi del quartiere, le case popolari ospitavano migliaia di famiglie. I luoghi di aggregazione, principalmente i parchi e le vicina sede del PCI e del FGCI, raccoglievano gli operai dopo il lavoro; nelle domeniche, oltre il mercato e la messa (con oratorio e campo di calcio annesso), il quartiere viveva un momento di aggregazione popolare, riproducendo su scale diverse, alcune dinamiche del borgo rurale.

Come tutti i quartieri del genere con gli ultimi anni 80 sono arrivati anche i primi grandi calo abitativi, i fenomeni di degrado, e l’eroina. Gli anni ’90, invece, sono stati forse gli anni più brutti, con le nuove generazioni che lasciavano definitamente le case dei genitori per spostarsi in aree diverse di Milano. Con l’arrivo del 2000, i nuovi fenomeni migratori hanno iniziato a segnare una sorta di «nuova primavera» per questa zona periferica: gli anziani pensionati si avvicendano a nuove famiglie nord africane, indiane, sud americane e del sud – est asiatico. Nuove storie stanno nascendo, intrecciandosi con le vecchie storie di lotta operaia e proletariato. Ma sono storie, queste, che ancora devono essere raccontate, o per meglio dire: raccolte. Si tratta infatti non di storie scritte su grandi documenti e conservate negli archivi, ma di storie che vivono tra le scale e i porticati di questi caseggiati. Storie orali, che attendono di essere salvate dall’oblio della memoria.

Diego Morgera